Vivono dentro le celle di un ex penitenziario nel centro di Gurrakoc, un villaggio che fa parte del Comune di Istok, in Kosovo. Sono giovani donne Rom con i loro mariti e figli, che, dietro le mura sgretolate della vecchia prigione, nascondono la loro storia. Si muovono silenziosamente, nel timore che qualcuno li possa mandare via. Li ha individuati il Tenente Colonnello Corrado Prado, responsabile dell’unità CIMIC (Civil Military Cooperation) del contingente italiano KFOR.
Stava andando a far visita al direttore del centro accoglienza per anziani, che si trova proprio accanto all’ex carcere. E’ da lì che ha notato un gruppo di bambini giocare in cortile, in mezzo all’immondizia, ad una vera e propria discarica. Quando è andato a cercali, ha scoperto che l’intera struttura era abitata da famiglie Rom che si erano insediate abusivamente e vivevano in condizioni di igiene drammatiche.
Decidiamo di andare a visitare l’ex carcere. Al nostro arrivo, assistiamo ad uno scambio di parole piuttosto vivace tra un uomo di etnia Rom, uno della comunità di Gurrakoc che si improvvisa portavoce, e il Tenente Colonnello Prado, affiancato da un funzionario del Comune di Istok e da un rappresentante della Croce Rossa. L’uomo è davanti al cancello del carcere, come a voler marcare il suo territorio. E’ diffidente, e, di fronte alla proposta del team CIMIC di far visitare i bambini dai medici dell’ospedale locale, reagisce malamente. Urla, non ne vuole sapere. Teme ci sia un inganno.
Intervengono allora alcune donne, con in braccio i loro bambini. Hanno uno sguardo disperato e hanno bisogno di aiuto. I loro figli non stanno bene e loro sono delle madri, ne sono consapevoli. Ciò che non sanno, però, è come fare a guarirli. Convincono il loro “portavoce” a farci entrare e ci mostrano dove vivono. Alcune famiglie hanno occupato un grande capannone accanto all’ex carcere, ma la maggior parte abita dentro le vecchie celle. L’entrata dà già l’idea di quello che troveremo poco dopo: schegge di vetro e dell’acqua, che scende a cascata, probabilmente da qualche tubazione rotta all’interno. Schiviamo gli schizzi e le pozzanghere, che troviamo in corridoio, e saliamo le scale per dirigerci verso le celle del secondo piano.
E’ qui che incontriamo due bambini. Hanno la cartella sulle spalle e qualcuno ci dice che sono appena tornati da scuola. Sono vestiti bene, con dei pantaloncini scuri e una camicia, come a voler nascondere ai loro compagni da dove provengono. Uno è molto pallido. Improvvisamente si blocca sulle scale e inizia a vomitare. L’altro avvisa un adulto, che lo porta subito in bagno. Lo raggiungiamo e immediatamente capiamo da dove arrivava l’acqua trovata in entrata. Più che un bagno, sembra una piscina. Per accedervi, bisogna immergere i piedi in almeno dieci centimetri d’acqua fredda.
Poco più in là troviamo una porta chiusa. E’ la cella, o meglio la “casa”, di un signore enigmatico, che vive da solo. Ci invita ad entrare, mantenendo lo stesso sguardo inespressivo per tutto il tempo che trascorre con noi. Restiamo impressionati davanti al suo rifugio: un salotto ordinato, con tappeti, quadri, sedie, poltrone e anche una vecchia stufa a legna. Si siede e si fa fotografare. Poi ci conduce in un’altra cella. Anche quella gli appartiene, o così almeno ci sembra di aver capito. E anche quella è decorata con tende e tappeti.
Le altre celle, invece, sono spoglie. Alcune non hanno neppure il pavimento, come quella adibita a lavanderia. E’ lì che troviamo un bimbo giocare sotto la biancheria lavata appesa ad un cavo, che attraversa tutta la stanza. Il giardino che circonda l’ex penitenziario è colmo di immondizia: macerie, rifiuti, elettrodomestici rotti, topi, scarpe, pezzi di pneumatici. Notiamo dei sacchi pieni di spazzatura su uno dei balconi. Vengono depositati lì dalle famiglie Rom e poi gettati nel giardino sottostante. Peccato che la nettezza urbana di Istok non preveda un passaggio nei pressi di questo stabile, ufficialmente disabitato.
Più fortunati di loro sono i Rom di Serbobrane, un villaggio che appartiene sempre al Comune di Istok. E’ formato da un gruppo di case di recente costruzione finanziate anche dall’Unione europea. Sonita ha 15 anni. Oltre all’albanese, parla spagnolo. L’ha imparato guardando la televisione. “Sono nata in Montenegro”, dice sorridendo. “Sono qui da ormai cinque anni. Mia madre si occupa della casa e mio padre lavora nei campi”. Ma Sonita, nonostante abbia una dignitosa abitazione con acqua corrente, bagno ed elettricità, una famiglia e degli amici con cui giocare e andare a scuola, non vuole restare in Kosovo. “Voglio tornare in Montenegro e fare la cantante!”, dice ballando e intonando una canzone spagnola. La sua amica Ikmet, invece, è felice di essere qui: “Sto bene in questo villaggio e non voglio andarmene. Non abbiamo nessun problema qui”, aggiunge.
Meno sognatore e più con i piedi per terra è Zena, un uomo dal volto provato, che potrebbe avere tra i 30 e i 40 anni. Parla bene il tedesco e ci spiega di aver vissuto in Germania per molto tempo, prima di trasferirsi in Kosovo. “Ho otto bambini”, dice. “Mia moglie è morta e qui non ho un lavoro. L’economia è “kaputt” e non posso restare. Voglio tornare in Germania!”.
Secondo i dati del censimento 2011 solo il 2% della popolazione del Kosovo è di etnia Rom, che non è omogenea e comprende vari gruppi sparsi nelle diverse municipalità. Ci sono i “rom etnici”, che usano la lingua rom e hanno una ricca tradizione culturale e legami forti con le comunità rom all’estero; gli “Ashkali, di fede musulmana, che parlano albanese e si considerano albanesi; gli “Egiziani”, i cui avi, prima di arrivare in Europa, dall’India si erano stabiliti in Egitto; e poi i Rom Cergari, di fede ortodossa, che parlano serbo-croato e conducono una vita nomade, prediligendo le aree popolate dai serbi.
Fanno parte di questi gruppi anche i Rom che abbiamo incontrato: c’è chi si accontenta solo della propria dignità e vuole assolutamente restare, anche rinchiuso nella sporcizia di una prigione, e chi, invece, nonostante la sicurezza di avere una casa e un’esistenza decorosa, fa oscillare quel 2%: sente il bisogno di andare via dal Kosovo, preferisce individuare una nuova meta, forse più vantaggiosa, piuttosto che una fissa dimora.
(Il team CIMIC ha mantenuto la promessa e i bambini Rom dell’ex carcere di Gurrakoc sono stati curati gratuitamente nelle scorse settimane dai medici dell’ospedale di Istok).
Nella prossima puntata i giovani albanesi del Collegio Don Bosco di Pristina.
Guarda le puntate precedenti:
La parola a KFOR
La rabbia di Vesna
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Da ricordare:
8 maggio 1989 Slobodan Milošević diventa il Presidente della Repubblica di Serbia (e dal 1997 della Repubblica Federale di Jugoslavia) e avvia una politica di assimilazione della provincia kosovara, colpendo principalmente i kosovari di etnia albanese con un vero e proprio programma di pulizia etnica.
Prima del giugno 1999: scontri quotidiani tra le forze militari della Repubblica Federale di Jugoslavia e le forze paramilitari dell’Esercito di liberazione de Kosovo (UCK). Crisi umanitaria.
12 giugno 1999: la KFOR entra in Kosovo su mandato delle Nazioni Unite per garantire sicurezza e stabilità
17-19 marzo 2004 pogrom anti-serbo: importanti episodi di violenza da parte di militanti indipendentisti albanesi-kosovari di religione musulmana contro le comunità serbe rimaste in Kosovo. Vengono assassinati serbi ortodossi, bruciati e danneggiati anche monasteri e chiese.
17 febbraio 2008 il Kosovo esce dal protettorato occidentale e si autoproclama indipendente (oltrepassando unilateralmente i confini della vecchia risoluzione 1244 dell’ONU). Il territorio è attualmente amministrato dalle Nazioni Unite. Viene riconosciuto solo da alcuni Stati (in Europa, per esempio, non da Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchia e Romania). La Serbia continua a rivendicarlo come parte integrante del proprio territorio. Cina e Russia difendono la posizione della Serbia.
Da sapere:
Etnie presenti oggi in Kosovo
– kosovari-albanesi (circa il 92% della popolazione)
– kosovari-serbi (circa il 5%)
– altre etnie: gorani, rom, bosgnacchi… (circa il 3%).
Missioni internazionali
– ONU con la missione UNMIK (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo): è stata istituita il 10 giugno 1999 con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, che ha nello stesso tempo autorizzato l’ingresso di un contingente di sicurezza guidato dalla NATO: la KFOR (Kosovo Force). Ha svolto le funzioni di polizia e giudiziarie fino al 9 dicembre 2008, quando queste competenze sono state assegnate alla Missione dell’Unione europea sullo stato di diritto in Kosovo (Eulex).
– NATO con le truppe KFORCE.
– Unione europea: dal 2008 con la missione EULEX per garantire la promozione e il rispetto della stato di diritto.