Con l’uccisione di Muammar Gheddafi, il 20 ottobre 2011, e la fine (o almeno dichiarata fine) della guerra civile in Libia, si è aperto un fronte nuovo, più subdolo, ma altrettanto devastante: quello del controllo sul petrolio. Con circa 2 milioni di barili al giorno ed una riserva di 46 miliardi, la Libia è infatti il quarto produttore di oro nero in Africa.
LA MIA VERITÀ – La partita è aperta ed ora ci si aspetta la contromossa delle multinazionali attraverso i governi e le diplomazie occidentali.
Gli italiani, da una parte, e i francesi, dall’altra, hanno pensato di approfittare della debolezza di un Paese in ginocchio per poter fare man bassa di petrolio e trarre profitti superiori a quelli garantiti dai precedenti accordi commerciali che avevano firmato con la Libia. Ma si sono clamorosamente sbagliati, perché i ribelli hanno intenzione di tenersi stretto il loro greggio.
Il 28 dicembre 2011 il capo del governo di transizione Abdel Rahim al-Kib ha rimesso in discussione i contratti stipulati tra l’italiana Eni e Tripoli, assegnando concessioni di estrazione con criteri nuovi e meno vantaggiosi. Dietro questa mossa si cela chiaramente il sogno di una sovranità indiscutibile sulle risorse petrolifere e gasiere (e sull’acqua).
Un brutto colpo per la società petrolifera italiana, storico operatore straniero presente in Libia sin dal 1959, che in passato non si è fatta certo scrupoli a fare affari con Gheddafi. Ebbene, in questo momento, stiamo assistendo ad un vero e proprio braccio di ferro tra il nostro governo e quello libico. Tripoli ha chiesto a tutte le compagnie straniere operanti sul territorio di dimostrare di esser partner “disinteressate” della Libia e non di quel che resta del governo Gheddafi, impegnandosi attivamente nella ricostruzione delle città distrutte dal raìs. Nel frattempo l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, ha subito precisato che la revisione dei contratti riguarda solo “due contratti di sostenibilità per iniziative sociali”. Immediata la replica del primo ministro provvisorio, per il quale sono da rivedersi tutti gli accordi commerciali con l’obiettivo di tutelare gli interessi dei libici.
Evidentemente l’ostentata tranquillità dell’Eni non convince, o forse è solo una coincidenza. Tanto che la Guardia di finanza, su mandato del Tribunale dell’Aja, ha sequestrato 1 miliardo e 108 milioni tra beni mobili e immobili, quote societarie e conti correnti in Italia riconducibili a Gheddafi e famiglia. L’iniziativa del tribunale dell’Aja nasce dal procedimento per crimini contro l’umanità in atto nei confronti del defunto raìs, del figlio Saif al Islam e del capo dei servizi segreti Abdullahh al Senussi. L’obiettivo è quello di congelare tutti i fondi posseduti o controllati dalla famiglia di Gheddafi per garantire forme di risarcimento alle vittime del passato regime.
Fra gli asset congelati ci sono partecipazioni azionarie in Unicredit (1,256% pari a 611 milioni); in Finmeccanica (2,01%, pari a 41 milioni e 760 mila euro); in Fiat Spa (0,33%) e Fiat Industrial (0,33%); nella Juventus (1,5%) e in Eni Spa (0,58%, pari a 405 milioni).
Ma quali sono gli strumenti utilizzati da Tripoli per attuare questo controllo? Da una parte c’è la Lafico (Libian Arab Foreign Investment Company), braccio finanziario di Gheddafi; dall’altra la Lia (Lybian Investment Authority), fondo sovrano costituito nel 2006 per gestire i proventi del petrolio, con un portafoglio cospicuo e non solo in Italia. Se però esaminiamo approfonditamente i legami politici ed economici tra controllate e controllanti, ne esce un intreccio di conflitti di interessi, dove si rende difficile distinguere chi comanda chi. Prendiamo l’Eni, per esempio. Secondo quanto dichiarato dai vertici del gruppo, la Libia controlla “solo” un capitale di 405 milioni. Ma il nuovo ministro del Petrolio, nominato il 23 novembre 2011 dal governo di transizione di Tripoli, è Abdulrahman Ben Yezza, ex uomo Eni, che è stato presidente della joint venture tra l’Eni e la compagnia di Stato libica Noc (National Oil Corporation). Anche stavolta è solo una coincidenza?
Attraverso una nota di Mohsen Derregia – nominato di recente presidente del Comitato di gestione della Lia – il Paese ha fatto sapere di essere pronto a fare ricorso contro il sequestro dei beni. Si legge nel testo: “Secondo quanto disposto dalle Corti italiane, tali beni sono di proprietà della famiglia Gheddafi, ma essi appartengono alla Lia, che a sua volta è controllata dal governo libico per conto del popolo libico. Sarà nostra premura porre in essere tutte le misure necessarie per chiarire tale malinteso nel più breve tempo possibile”. E come si poteva immaginare, la Libia non è rimasta a guardare.
INTANTO…
La Sec (Securities and Exchange Commission) – l’equivalente statunitense della Consob – sta indagando su presunte tangenti pagate tra il 2008 e il 2011 dalla società italiana Eni (e dalla francese Total) al vecchio regime per garantirsi dei contratti. La notizia arriva proprio nel momento in cui il cane a sei zampe stava rilanciando la propria attività estrattiva ed è frutto di un’inchiesta aperta proprio dal nuovo governo libico, sostenuto dagli americani. Per l’Eni il futuro non sarà facile, che sia un’azione dovuta o la controffensiva degli Usa, tagliati fuori dalla torta libica. La prossima patata bollente è il gas ed il completamento del Western Libyan Gas Project, che mira all’esportazione e commericlizzazione in Europa. Si tratta dell’opera più importante in corso nel bacino del Mediterraneo. Basti pensare che per il progetto, varato nel 1999, c’è voluto un investimento di 7 miliardi di euro, di cui 3,7 in quota Eni. Inaugurato nell’ottobre del 2004, il Greenstream è lungo 520 chilometri: passa ad ovest dell’isola di Malta e raggiunge la Sicilia, con una profondità massima di 1.127 metri.
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