ROMA – In Italia, le condizioni delle carceri non fanno che peggiorare, mentre in altri Paesi mediterranei la situazione raggiunge addirittura livelli più allarmanti: i dati sul numero di suicidi, violenze, proteste, sono incontrovertibili.
Professore, cosa sta succedendo nelle carceri italiane?
Avvocato penalista, ordinario di diritto penale a Roma (università Luiss) già presidente della Corte Costituzionale, rappresentante italiano nella Convenzione per la redazione della Carta europea per i diritti umani nonché Ministro di Grazia e Giustizia, da sempre Giovanni Maria Flick è particolarmente sensibile a questo tema. “Il sovraffollamento è all’origine di buona parte dei ripetuti e sempre più frequenti episodi di tortura, di violenza, di invivibilità (non a caso lo Stato più volte è stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo).
La questione va affrontata concretamente e subito: ma ora è più urgente il tema delle violenze in carcere, non solo quelle dei detenuti.
Cosa vuol dire?
Premetto che la Costituzione impone sempre il rispetto dei diritti inviolabili e dei doveri inderogabili delle persone (art. 2); ammonisce sulla pari dignità sociale di tutti gli esseri umani (art.3); punisce ogni violenza fisica e morale sui detenuti (art. 13 e 27).
Nel breve termine, chi compie o ha compiuto una violenza deve essere subito doverosamente reso inoffensivo e lo Stato che lo ha in custodia ha il dovere di non violare la sua integrità e dignità. Il singolo può e deve intervenire temporaneamente per neutralizzare la violenza, ma certamente non può da solo – o peggio in gruppo – “vendicare” o “dare una lezione”.
Nel medio termine, dovremo considerare il carcere come custodia cautelare pena solamente se e quando strettamente necessario: per il resto no appena possibile. Lo Stato non piò continuare a deprecare a parole le violenze in carcere e poi nei fatti continuare a scegliere la minaccia e l’uso della sanzione penale per ogni elemento di controllo sociale (elemento che tra l’altro alimenta il sovraffollamento).
Mezzi legittimi per neutralizzare e punire eventuali violenze dei detenuti?
Vale il principio generale della proporzione fra la violenza e l’azione di contenimento. Sarà un provvedimento dell’autorità giudiziaria ad accertare le possibili violazioni, ovviamente nel rispetto della presunzione di non colpevolezza per gli imputati. La questione di fondo però è un’altra …
Quale?
Di fronte alla drammaticità e frequenza delle violenze in carcere ad opera di chi è preposto alla vigilanza e alla sicurezza – e senza nulla togliere al lavoro usurante, alle difficoltà, all’impegno, al sacrificio della grande maggioranza degli agenti di custodia, e testimoniati dalla frequenza dei loro suicidi – dovremmo dedurre che, di fatto, i trattamenti per risolvere le violenze in carcere di alcuni casi diventano torture. Non siamo di fronte a pene illegittime (come quelle che non tendono alla rieducazione), bensì a veri e propri reati comuni: dalle lesioni alla violenza, alla tortura, a tutta la scala delle ipotesi di calpestamento della dignità sociale e dei diritti del detenuto. Reati gravi, che vanno punti a norma di Costituzione (art. 13).
Come intervenire?
Mi sembra inverosimile – con tutto quello che abbiamo scoperto in tema di intelligenza artificiale e di evoluzione tecnologica – non praticare nuove e migliori tecniche di organizzazione del sistema penitenziario e individuare strumenti di controllo diversi dal carcere. La limitazione della libertà personale non può essere una pena in quanto tale: solamente una misura temporanea, eccezionale, una extrema ratio per frenare o contenere un’aggressività altrimenti non controllabile.
Finora, il carcere ha dimostrato di non ricuperare quasi mai o per niente, anche perché la popolazione carceraria è composta di un 30% circa di tossicodipendenti e un 30% di migranti.
In pratica, ci si limita a isolare la persona dall’ambiente esterno per confinarla in un contesto obiettivamente molto problematico
Qualsiasi formazione sociale condiziona la personalità del soggetto che in quel contesto vive e sviluppa la propria dimensione personale e temporale, le sue relazioni, il suo passato e il suo futuro. Con l’isolamento e il distanziamento sociale imposto dal Covid abbiamo tutti sperimentato quanto le relazioni interpersonali, lo spazio e il tempo siano necessari al nostro sviluppo, anzi alla vita stessa non solo nostra, ma anche del partner e dei figli.
Una recente decisione della Corte Costituzionale ha però riconosciuto il “diritto alla affettività” dei detenuti
Plaudo a questa decisione che non priva il detenuto del suo diritto alla affettività e della possibilità di esercitarla, ovviamente nel rispetto delle regole di sicurezza.