ROMA – Litigiosi, lo siamo da sempre. Polemici, sovente senza nemmeno ascoltare le ragioni dell’altro. Suscettibili come di norma i frustrati. Aggressivi non tanto per nuocere realmente quanto per dimostrare di esistere: lo status di cittadini di una repubblica moderna e democratica ha tacitato ma nient’affatto cancellato l’antica ridicolissima vergogna del “lei-non-sa-chi-sono-io”.
Due film famosi: “Un giorno in pretura”, 1954, con Alberto Sordi, e “Il sorpasso”, 1962 con Vittorio Gassman anticiparono un fenomeno che, al pari di tanti altri, nel tempo era destinato a generalizzarsi.
Perché?
Hanno risposto – con opinioni radicalmente diverse – lo psicoanalista Danilo Moncada Zarbo di Monforte , intellettuale europeo ben attento al sociale, che vive tra Roma e Barcellona, e la avvocata Lidia Lo Giudice la cui professione, a Milano, di quotidianità si nutre.
Danilo Moncada Zarbo di Monforte: Siamo continuamente sottoposti a immagini di morte, accerchiati dalla morte; ovunque guerre, morti in mare, pandemie, terremoti, inondazioni, incendi. In alcuni, tali immagini alimentano un vissuto di potenza (“noi siamo vivi e migliori”), nelle personalità più disorganizzate si traducono in insofferenza, aggressività.
Si esprime in forma anche nuova, il disagio?
Più che altro se ne parla di più. Social Internet Whatsapp Instagram etc informano commentano protestano urlano, ma sentimenti uguali attraversano le generazioni e le agitano, la sofferenza umana è medesima. Non mi sentirei di definire moderno, ad esempio, il fenomeno delle gang di ragazzini, che oggi allerta tutti, ma che in realtà esiste da decenni in tutte le capitali del mondo, dovuto essenzialmente al disagio delle periferie.
Un possibile collegamento fra l’odierno montare dell’insofferenza e l’isolamento a suo tempo imposto dal covid?
Mah. Volendo trovare un nesso, richiamerei la diffusa incapacità di affrontare le frustrazioni. Dopo la pandemia c’è stato un aumento di atti autolesionistici, specialmente in età scolare; però anche il tagliarsi, ferirsi con oggetti è fenomeno sempre esistito: semplicemente se ne parlava poco, o nulla. All’origine c’è sempre una forte base depressiva, in particolare la sensazione di perdita di senso della propria vita.
Come per i suicidi.
Sì, più frequenti con l’avanzare dell’età, favoriti dall’isolamento. Ci si uccide preferibilmente nelle grandi città, nel cuore della notte, per lo più ricorrendo a superdosaggi di farmaci perché si pensa di soffrire meno. Chi ha deciso veramente di morire non vuole farsi del male, vuole soltanto smettere di soffrire.
Poi ci sono quelli che non vogliono realmente morire.
Minacciano il suicidio per manipolare l’altro, poter (continuare a ) controllarlo. Strategia perversa che perde efficacia o quando il suicidio malauguratamente riesce, oppure quando la vittima dopo essersi in un primo momento piegata, va in analisi e risolve i suoi sensi di colpa. In quel caso a morire – morire dentro, intendo – sarà chi ha ricattato.
Violenze psicologiche e fisiche rispondono a un medesimo meccanismo?
Sì. Per desiderare di causare dolore, di destrutturare l’altro, devi essere incapace di amare, di stabilire relazioni funzionali basate su autostima, supporto, prospettiva, contenimento reciproco desiderio. Sembra banale, ma non lo è.
Chi è oggi la vittima?
Un individuo o un gruppo che senza aver violato regole o leggi viene sottoposto a violenza, prepotenza, vessazione. I modi mutano, continuamente se ne aggiungono nuovi. Uno di essi è diffondere in rete video girati ai tempi di quella intimità felice che uno dei due non si rassegna ad avere perduto. E così ritorniamo al nocciolo del problema, che è la incapacità di reggere le frustrazioni.
Più che nuove apposite leggi, servirebbero nuovi appositi percorsi educativi.
Come per gli stupri.
Sì, perché sono atti criminali, frutto non di un disturbo mentale ma di una cultura patriarcale, fallocentrica; colpiscono non solo quella singola donna ma l’insieme di tutte le donne, umiliate per il loro genere. Non a caso lo stupro etnico ha un’accezione politico-strategica, è un’arma di guerra.