ROMA – Mai incontrato connazionali che, in viaggio all’estero, cercano un ristorante italiano? E chi, in patria, rifiuta di assaggiare cibi di altri Paesi? C’è qualcosa di più di obiettiva ottusità: la solita, maledetta paura di quel che non si conosce, di quel che è diverso. Si trattasse solamente di gusti e palato, uno/a assaggerebbe, prima di decidere; se poi rifiuta, almeno sa cosa. Deve essere molto fragile, questa identità, se bisogna proteggerla persino dall’essere curiosi. Emergono ataviche ossessioni: Se-mangio-il-tuo-cibo-rischio-di-diventare-come-te, e/o Se accetto il tuo cibo finirò per accettare anche te – invece no, sia mai, non passa lo straniero, appunto.
Eppure, quanti sapori dell’immenso mondo stanno dentro la cucina italiana.
Una prima colazione, ad esempio, comprende yogurt e frutta. Le pesche arrivano dalla Persia, fichi da Anatolia e Siria, il cocomero egiziano; il mandarino fiorì nella Cina meridionale, il lime nell’arcipelago malese; tutti gli agrumi – oggi una delle nostre coltivazioni principali non soltanto in Sicilia – provengono dal Lontano Oriente (verso il 1100 gli arabi li diffusero nel Mediterraneo); lo yogurt (in turco ‘latte denso’) compare tra i nomadi dell’Europa orientale almeno 4mila anni prima di Cristo ed è ben presente nei banchetti dalle Mille e Una Notte.
Sarà nostrana per lo meno l’abitudine del panino con salame, o formaggio, o verdure, che mangiamo sovente quando non abbiamo tempo per pranzo? Nemmeno. Nel 1762,a Londra, al Cocoa tree, pub per soli uomini, lord John Montague, primo lord dell’ammiragliato e quarto conte d sandwich, stava disputando una partita importante ma aveva fame; non potendo alzarsi dal tavolo da gioco, chiese di fargli avere due fette di pane con in mezzo delle fettine di manzo tagliate sottili. Era nato il sandwich, cioè il panino, destinato a varie versioni apprezzate subito in tutta Europa.
Quanto a pranzo e cena, poi, il mappamondo dovrebbe essere impresso sul menu. Per uno spaghetto aglio olio peperoncino, specialità romana, occorrono l’aglio che è originario dell’Asia, il peperoncino che è messicano, e un olio degno della primigenia spremitura delle olive che si sviluppò in Palestina, Siria, Creta.
La grigliata di verdure classica prevede zucchine, melanzane, peperoni, rispettivamente originari del Perù, dell’India, dell’America centro/meridionale. Le bruschette più diffuse si fanno con pomodori (proveniente dal Messico, a lungo considerato afrodisiaco), basilico (dall’India); per le patatine fritte e la purée dovremmo ringraziare Perù e Cile (in Europa la patata fu a lungo considerata “cibo malsano”, addirittura “capace di provocare effetti allucinogeni e di dare alle streghe i potere di volare”). La pasta se la contendono cinesi, etruschi, arabi, greci, romani. Il riso giunse dall’Asia con le conquiste di Alessandro Magno, e nel risotto milanese trionfa lo zafferano iraniano. Gli spinaci sono arabi, la frittata di cipolle compare in Egitto qualche migliaio di anni fa, le lenticchie erano coltivate già 7mila anni prima di Cristo. E se degustiamo polenta e baccalà, specialità veneta, il merito è di Cristoforo Colombo che a suo tempo portò il mais dall’America nonché dei pescatori oggi attivi nei mari del nord Europa e del Canada.
E dopo, per digerire? Un buon caffè, certamente.
Un giorno di tanti secoli fa, presso il lago Tana, nel nord dell’Etiopia, un vecchio pellegrino molto pio, denominato Bata Maryan, ovvero schiavo di Maria, mentre come d’abitudine si dedicava alla penitenza, a digiuno da ore, in meditazione appoggiato al suo bastone, cadde in stato di incoscienza e il bastone restò conficcato nel suolo. Improvvisamente una luce lo avvolse. Riaprì gli occhi e si accorse che il bastone era tutto fiorito, ricoperto di foglie e di frutti rossi.
È’ il miracolo del bastone di Bata Maryan: era nata la prima pianta di caffè.
Gran parte del mondo di oggi conosce e apprezza questa bevanda, preparandola in modi molto diversi.
Altro che “cucina italiana”. Lungo i secoli e gli spazi ci siamo incontrati (e scontrati), conosciuti, frequentati, mischiati, inglobati. Ci siamo contaminati e abbiamo contaminato. Che bellezza che sia andata così.
Che bellezza, soprattutto, che continui ad andare così