Libri/ L’Io arabo. Intervista a Mohammad Mouazin

L'io arabo. Mohammad Mouazin
L’Io arabo” è nato come un diario, Mohammad Mouazin ha cominciato a scriverlo nel 2004. “E’ stato un lungo viaggio durato 11 anni – spiega l’autore di origine siriana – quasi per un gioco del destino, come l’11 settembre, come gli 11 mesi intercorsi fra l’attentato alla sede di Charlie Hebdo e gli atti terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015“.

L’Io Arabo è una risposta che passa attraverso l’analisi delle complesse dinamiche che oggi sembrano rendere incompatibili il mondo arabo e quello occidentale.
Abbiamo incontrato l’autore dopo la presentazione del suo libro a Milano. La prossima tappa sarà Trento, in occasione del Festival del nuovo rinascimento.

Il suo libro è una raccolta di riflessioni, come un vero e proprio diario. Cosa l’ha spinta a pubblicarlo?
Nel 2004, c’era la guerra in Iraq e sentivo diffidenza verso la mia cultura. Non ero assolutamente d’accordo sull’invasione di questo Paese, quindi scrivevo ciò che sentivo. Ho continuato a scrivere, ma senza l’intenzione di pubblicare il mio pensiero. Era mio e basta. Come spesso accade, l’ho fatto leggere ad amici che mi hanno convinto a pubblicarlo; e così è stato. Era piaciuto moltissimo all’ambasciatore italiano, Claudio Pacifico, che ha deciso di scrivermi la prefazione.

E’ riuscito a rispondere alla domanda che il libro ci propone: “E’ possibile convivere?”
La risposta è complessa perché non c’è solo la convivenza con l’Altro, ma soprattutto quella con noi stessi, con la solitudine di avere due identità. E’ un lungo viaggio che dobbiamo fare per la convivenza e la sopravvivenza.

Nel suo libro lei scrive: “E’ una bella impresa difendersi continuamente e sentirsi colpevole, colpevole di essere arabo”. Cosa intende?
Sì, in effetti, io come molti miei connazionali viviamo l’imbarazzo, la paura dello sguardo dell’Altro. Il concetto è espresso molto bene nel libro “L’infelicità araba” di Samir Kassir, che va più a fondo sviscerando il senso di colpa verso il proprio Io, per non essere stato capace di assumersi le proprie responsabilità, proteggendo la propria storia. Il vedere poi che dalle stesse tue radici nascono piante marce, come i terroristi, ha reso ancora più acuto il senso di colpa. Anche se il fenomeno del terrorismo non è nostro, ma nasce dagli errori della società.

Lei mi ha detto che questo libro è diverso. Perché?
Perché nasce quando non scriveva nessuno; io sono della generazione di chi ha subito, ma non ha detto. A me non piace che molti miei connazionali e correligionari usino il vittimismo come fonte di guadagno. Lo chador, che dovrebbe essere una scelta spirituale, oggi è diventato un modo per distinguersi. All’interno della comunità araba ci sono giovani che usano e si fanno usare dai media. E’ un po’ il servirsi di un nemico, in questo caso l’intolleranza, per essere famosi. Nelle mie lezioni faccio spesso l’esempio dei dittatori arabi che hanno il nemico per antonomasia in Israele, e questo giustifica la loro presenza. Io cerco di fare una riflessione positiva perché tutti, arabi e occidentali, possano finalmente “riconoscersi” considerando il vero significato della parola “conoscersi di nuovo”, senza pregiudizi, per comprendere. “Abbracciare con la mente”, l’Altro.

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