Verso il distanziamento sociale internazionale

Credit: Nick Fewings – Unsplash

Distanziamento sociale (o “social distancing” in inglese) significa forse “guerra”? In molti, tra cui il Presidente americano Donald Trump (It’s a medical war. We have to win this war. It’s very important.”) o quello francese Emmanuel Macron (« Nous sommes en guerre. ») hanno associato la recente emergenza sanitaria mondiale dovuta alla diffusione del Covid-19 alla guerra. Ma se di guerra non si tratta, di rivoluzione sociale e culturale forse sì. Un recente articolo del quotidiano americano New York Times sui Paesi asiatici che pensavano di avere sotto controllo l’epidemia, mostra un nuovo scenario mondiale inquietante e lo abbina ad un inedito termine: international social distancing. Ma partiamo dal distanziamento sociale originale.

Il social distancing, cioè la riduzione di contatti con altre persone, è stato richiesto nelle settimane scorse dal World Health Organisation (WHO) a tutti i governi per prevenire la diffusione del coronavirus nel mondo. Il 24 marzo scorso, lo stesso WHO ha deciso di sostituire il termine “social” con “physical” per dare maggiore peso all’aspetto fisico della distanza più che a quello sociale.
Il distanziamento sociale è stato già applicato in passato: a New York nel 1916 per prevenire l’epidemia di poliomielite e, due anni dopo, a Filadelfia per affrontare la pandemia dell’influenza spagnola; più di recente, nel 2003, è stato rintrodotto in alcuni Paesi per bloccare la diffusione della Sars.
In concreto le misure includono una distanza di almeno due metri tra due o più soggetti, la chiusura di scuole, negozi, attività lavorative sportive e ludiche, restrizioni di viaggi, quarantena e isolamento.

La guerra è effettivamente un fenomeno sociale come lo è il distanziamento sociale. Essa, però, è generata da questioni politiche, economiche o ideologiche, non sanitarie, e si traduce in un conflitto armato tra Stati o popoli. La storia ci insegna che la guerra fa parte della vita umana da tempi lontani.

Smettiamo dunque di confondere questi due termini e diamo loro il giusto peso, visto che entrambi ne hanno uno molto importante.

Se parliamo oggi di Covid-19, la mente ci porta subito in Cina, Italia, Spagna, Francia e poi Stati Uniti, Regno Unito e piano piano al mondo intero. Se pensiamo, invece, alle guerre che oggi devastano il pianeta – nonostante l’appello del Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, per una tregua umanitaria dei conflitti armati in tempi di coronavirus – rivediamo gli scenari strazianti in Siria, Libia, Yemen, Afghanistan, Mali, ..

Se osserviamo oggi la Siria, per esempio, scopriamo che dopo 9 anni di guerra e oltre 400mila morti, la metà degli ospedali sono stati distrutti e il 70% degli operatori sanitari è morto o ha lasciato il Paese. Le autorità di Damasco hanno imposto il lockdown per evitare la diffusione del coronavirus ma, nonostante le restrizioni, il 30 marzo scorso si è registrato il primo decesso. Dalla guerra si passa al distanziamento sociale, che però è di difficile applicazione. E la pace è ancora lontana.

Anche in Libia la guerra civile continua. Il generale Khalifa Haftar ha intensificato gli attacchi alla periferia di Tripoli e nelle aree di confine con la Tunisia. La risposta del rivale Fayez al-Serraj non ha tardato ad arrivare con l’operazione militare “Tempesta di pace“. Il coronavirus non ferma il conflitto ma diventa, invece, un mezzo utilizzato da entrambi i leader per fare propaganda. E il social distancing potrebbe essere l’unico strumento per evitare i contagi e non destabilizzare il potere. 

Una volta compresa la differenza – e a volte la relazione – tra distanziamento sociale e guerra e constatato che si tratta di due fenomeni sociali, non ci resta che osservare oggi il mondo e ipotizzare quello di domani. Pensare al futuro, però, porta tanta inquietudine perché troppe sono le incertezze temporali e spaziali.

La reporter del New York Times e capo dell’ufficio di Tokyo, Motoko Rich, ha analizzato ciò che sta accadendo oggi nei Paesi asiatici che pensavano di aver sconfitto il Covid-19. Il timore di una nuova ondata di infezioni portate da “fuori”, da viaggiatori stranieri, ha prodotto in molti Paesi e città come Hong Kong, Singapore, Cina, Taiwan, importanti misure restrittive. Una delle “soluzioni domestiche” più utilizzate è la chiusura dei confini.  Il Giappone, per esempio, ha vietato l’ingresso a viaggiatori provenienti dagli Stati Uniti; la Corea del Sud e Singapore hanno imposto agli stranieri in arrivo una quarantena di 14 giorni in strutture governative; ad Hong Kong solo i residenti possono entrare nel Paese mentre la Cina punta sulla tecnologia per far rispettare la quarantena dei nuovi arrivati, costretti ad inviare quotidianamente sull’applicazione WeChat la propria temperatura corporea. Tutte queste restrizioni sono un vero e proprio ostacolo anche per gli espatriati o gli studenti che vivono all’estero e non riescono più a rientrare nel Paese d’origine.

Come un boomerang, il coronavirus colpisce da Est verso Ovest e di nuovo ad Est, da Sud verso Nord e ancora a Sud. Il mondo di domani potrebbe rimanere su una sorta di blocco indefinito, la globalizzazione potrebbe essere sostituita dall’isolamento.
Nel mondo di domani
potrebbe diffondersi una nuova angosciante pratica di protezione reciproca: il distanziamento sociale internazionale (o international social distancing).

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