Come Saremo: indifferenti, gaudenti e tristissimi
Il post pandemia ci ripropone i medesimi problemi di ieri: non li abbiamo elaborati anche perché ci mancano gli strumenti per farlo, né abbiamo messo in discussione il nostro stile di vita, e nessuno – tranne Papa Francesco – ha ammonito.
ROMA – Storicamente, alle pandemia si è sempre risposto con le chiusure – nel medioevo, talvolta si arrivava persino a murare portoni e finestre – che hanno regolarmente suscitato proteste, spesso violente. L’attuale confinamento, particolarmente lungo, ha minato le capacità di resilienza, inciso pesantemente sulle condizioni sanitarie, familiari, sociali, economiche, lavorative; è stato terreno di coltura per sindromi depressive, intolleranza, disturbi del sonno e di ansia anche con aspetti ipocondriaci.
Non sono certamente novità nel panorama umano, osserva il professor Stefano Tamorri, neuropsichiatra, esperto massimo in burnout, ma in questo periodo le stiamo percependo di più.
A esasperare ulteriormente la situazione, alcune ciniche strumentalizzazioni politiche e la cosiddetta infodemia (cioè gran ressa di informazioni, inevitabilmente anche contraddittorie). Parallelamente all’avanzare delle vaccinazioni, adesso stiamo però uscendo dall’incubo. Come saremo?
Temo che saremo come prima, perché non stiamo elaborando l’esperienza della pandemia. L’aspirazione massima è anzi tornare alla vita precedente, cioè vivere al momento e al meglio, pensare a se stessi ignorando il resto del mondo. Avremmo dovuto riflettere sul nostro modello di vita, delinearne uno diverso (o più di uno) e proporlo, provare a relazionarci in modo nuovo con gli altri. Ma lei ha sentito un invito in questo senso da parte di qualche personaggio di potere? No, solamente Papa Francesco ha detto Ragioniamo, Fermiamoci, Cambiamo. Gli altri hanno continuato/continuano a parlare di borsa, mercato, Pil ecc, ad arroccarsi sull’interesse immediato.
Perché?
Perché a fronte di alcuni che hanno dentro di sé un vocabolario di emozioni e valori, tanti sono invece condizionati da modelli a lungo respirati e ai quali inconsapevolmente continuano a riferirsi – un fatto di pigrizia mentale, abitudine.
Manca la libertà, lamentano. Quale libertà? Della movida, dell’aperitivo? Il problema è che non si accorgono che ben altre imposizioni, ben altri condizionamenti hanno plasmato il loro modo di essere, la loro visione della vita. Decenni di cultura del tutto e subito, adeguatamente propagandata soprattutto attraverso alcune emittenti televisive, hanno segnato la nostra società. Ognuno di noi dovrebbe disporre di un lessico che gli consenta di mettere a punto l’autonomia di pensiero, e di elaborare proprie opinioni, idee.
E adesso come lo costruiamo, con cosa, il pensiero critico?
Sta pensando ai più giovani?
Non farei più tanta distinzione, per strada incontro molti vecchi che si tolgono la mascherina per fumare. È quella, la libertà? La nostra è una società di tipo narcisista, dunque patologica.
Però è sano volere vivere bene. Dove scatta la discriminante patologica?
Nella incapacità di tollerare le frustrazioni e nella sistematica indifferenza verso gli altri. In fondo, è anche il meccanismo alla base del femminicidio: tu mi lasci e io ti ammazzo.
Non a caso, nei momenti di sconvolgimento, sono le persone con un buon livello di empatia ad avere maggiori probabilità di mantenere l’equilibrio psichico.
Ma ci rendiamo conto che in Italia sono morte più di 100mila persone, in pratica è stata rasa al suolo una piccola città, e la gente continuava a protestare per le restrizioni e le limitazioni? I mancati guadagni dei fornitori di beni e di servizi erano, e sono, evidenti e drammatici, ma se i loro potenziali clienti muoiono, finiranno per morire anche loro. Basterebbe rendersi conto di questo per rimanere calmi, ma essendo questa una eventualità non immediata, non passa neppure per la testa.
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